DIECI PAROLE, DUE RISCHI, UNA RIBELLIONE

I dieci comandamenti – o meglio, secondo la Bibbia – le DIECI PAROLE hanno all’inizio una premessa, che è assolutamente fondamentale per la comprensione di quel che vien dopo. Nell’uso catechistico ci limitiamo a “Io sono il Signore tuo Dio”. Ma il testo biblico di oggi dice di più: “Io sono il Signore tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile” a cui seguono le dieci parole.

Dio, prima di dire a noi quello che dobbiamo fare ci dice quello che Lui ha fatto per noi, Sta parlando al popolo di Israele, all’inizio si era rivelato a Mosè proprio con le parole “IO SONO” (che in un complicato passaggio da una lingua all’altra diventa JHWH / Jahvé) e gli ebrei capivano chi era Dio a partire da quel che Egli aveva fatto per loro: “Io sono” cioè “io ci sono, io sono per voi, dalla vostra parte”: Il Dio liberatore, che fa passare il popolo attraverso il Mar Rosso, che fa morire l’esercito egiziano che li insegue per riportarli in schiavitù, che li conduce alla terra promessa.

Non bisogna mai cominciare dai comandamenti, dalla morale (da quello che dobbiamo fare noi) quando si tratta della nostra relazione con Dio. Ma da quello che Dio ha fatto per noi, da quello che noi siamo grazie al suo amore, per poi tirare le conseguenze di quello che ci tocca, che cosa siamo chiamati a fare, come siamo chiamati a vivere. Ma le dieci parole non sono dieci obblighi, dieci divieti, dieci minacce di castigo. Sono la conseguenza di un amore fedele, premuroso, creativo, che fa il possibile e l’impossibile e che alla luce di tutto quello che Dio è e fa per noi chiede risposta, fedeltà, impegno. Nel linguaggio biblico tutto quello è l’alleanza qualcosa che avviene tra due contraenti, uno dei quali è Dio che si mette in gioco per amore.

San Paolo scrive ai cristiani di Corinto (1 Cor 1,22-25) per metterli in guardia da DUE RISCHI: per i giudei che cercano i miracoli la croce è debolezza, per i pagani in cerca di finezze poetiche o filosofiche si tratta di stoltezza. Ma per il cristiano proprio nella CROCE risalta la potenza e la sapienza di Dio. Chi è Dio per noi, che cosa fa per noi ce lo rivela la croce: è il punto massimo del dono di sé che Gesù vive per fedeltà a Dio e per amore degli uomini. Quello che era stato il Dio liberatore per Israele, per noi lo è Gesù: né segni potenti (il crocifisso viene provocato chiedendogli di scendere dalla croce, e così sarà creduto) né raffinati ragionamenti, ma il dono della vita. A questo dono, e non all’ostentazione di potenza e di sapienza, il Padre risponderà con la risurrezione. È per questo che in Gesù siamo salvati, è questo il cuore del Vangelo!

A questi due forti messaggi biblici, la Liturgia di questa sterza domenica di Quaresimi fa seguire un Vangelo altrettanto forte, impegnativo, provocante: GESÙ SI RIBELLA al degrado del tempio cacciando coloro che ne hanno fatto un luogo di mercato, per restituirlo all’autenticità e alla purezza dell’incontro con Dio, all’autentico rapporto filiale col Padre. Un episodio che Giovanni colloca all’inizio del suo Vangelo (a differenza dei tre sinottici) quasi a indicare un percorso che si compirà alla fine: a chi è sconcertato dal suo agire, Gesù afferma che il tempio può anche essere distrutto e lui in tre giorni lo farà risorgere, con un chiaro riferimento a quel che avverrà dopo la sua morte. Ma il collegamento dice di più: il vero tempio, il luogo adatto all’incontro tra Dio e gli uomini adesso è il corpo di Gesù, la sua carne crocifissa e risuscitata, il suo dono d’amore pienamente accolto dal Padre.

Ma la glorificazione nel corpo e attraverso il corpo non è esclusiva di Gesù, da momento che Paolo afferma: “il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e voi non appartenete a voi stessi. Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!” (1 Cor 6,19-20). Grazie a quanto Gesù “ha pagato” sulla croce per liberarci dal peccato, è avvenuta la nostra liberazione. Più di quella di Israele dalla schiavitù dell’Egitto.

Quali sono le conseguenze per ogni cristiano, e per le comunità cristiane? Prima di tutto un bel ripasso delle DIECI PAROLE: intanto per controllare se per caso le avessimo dimenticate e soprattutto per verificare, ciascuno con la propria vita, se accada di zoppicare qualche volta, almeno su uno o due dei comandamenti. Questa Quaresima viviamola come tempo propizio per fare un bel “tagliando” alla propria coscienza morale.

Poi, pensando al testo di Paolo sullo scandalo e la follia della CROCE, sostare un po’ davanti al crocifisso, chiedersi ciascuno: che cosa rappresenta per me l’Uomo della croce? Che posto ha nella mia vita? Per me essere cristiano significa essere “di Cristo”, legato a Lui, amato da Lui, salvato dalla sua croce, morto per me?

Infine, a partire dallo sdegno di Gesù per quello che era diventato il tempio, pensare alla Chiesa oggi: dire che è il tempio dello Spirito Santo è una bella e corretta affermazione teologica, ma è altrettanto vero che non sempre e non dappertutto si presenta come sposa di Cristo “senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Efes 5,27). E quindi condividere e sostenere l’impegno di papa Francesco per la riforma della Chiesa per renderla “ospedale da campo”, impegnata per “l’inclusione sociale dei poveri, che hanno un posto privilegiato nel popolo di Dio, e la capacità di incontro e di dialogo per favorire l’amicizia sociale”, libera “da ogni surrogato di potere, d’ immagine, di denaro”. Ognuno di noi, nel suo piccolo, può fare qualcosa per una Chiesa così.

Don Antonio Cecconi