UN ROVETO ARDENTE E UN FICO CHE NON DA' FRUTTI

“Ho osservato... ho udito... conosco...”. Con queste parole Dio si rivolge a Mosè per dirgli che di fronte alle sofferenze e all’oppressione del popolo di Israele in Egitto ha deciso di liberarlo. E Mosè viene chiamato, scelto e inviato proprio per questo. Mosè resiste, recalcitra, accampa scuse ma alla fine si metterà al servizio del progetto divino di liberazione (Esodo 3,1-15). E per convalidare la chiamata e per dare forza all’impegno richiesto, Dio rivela a Mosè il suo nome: IO SONO COLUI CHE SONO. Nella lingua e nella mentalità biblica non si tratta di una terminologia astratta, teorica, metafisica. Il senso del none divino è: IO CI SONO, ci sono stato, ci sono e ci sarò, sono con voi e per voi, dalla vostra parte; mi conoscerete da quello che io farò in vostro favore.
Il Dio d’Israele – e poi il Dio rivelato da Gesù Cristo – non è un concetto, un’astrazione, un’entità da conoscere intellettualmente e probabilmente da temere, ma Colui (il Nome, la Presenza e poi – con Gesù – il Padre) con cui entrare in relazione, da cui sentirsi accolti, perdonati e amati e quindi che è possibile a propria volta amare, come risposta al suo amore. Certo, si tratta di un amore umanamente quasi impossibile, dal momento che osa relazionarsi con Dio. Un Dio da incontrare o meglio adorare con tremore e timore... Non per paura (di un Dio cattivo, vendicatore, padre/padrone) ma per consapevolezza della propria inadeguatezza e indegnità, del proprio peccato. E tuttavia un Dio che si rivela amabile e si lascia amare. Per questo l’evangelista Giovanni, in quello che per me è il vertice della rivelazione cristiana, nella sua prima lettera afferma: “DIO È AMORE”. Non questa o quell’azione che vorremmo facesse, e nemmeno una delle tante qualità che gli possiamo attribuire, ma la sostanza, l’intima natura, ciò senza di cui Dio non sarebbe Dio.
Stiamo balbettando, camminiamo su un terreno minato... o incandescente, a rischio di bruciarci i piedi. Stiamo tentando di penetrare con lo sguardo,restando accecati da una luce sfolgorante. E da Colui che si manifesta dal roveto ardente, Mosè si sente dire di togliersi i sandali perché sta calpestando terra santa. 
L’incontro con Dio è rischioso ma possibile, e soprattutto coinvolgente, per chi lo incontra davvero niente sarà più come prima. Per questo la nostra fede è debole, facciamo atti di culto o recitiamo preghiere con una buona dose di incoscienza, siano cristiani superficiali ed episodici perché ci difendiamo da Dio, intuendo che prenderLo sul serio Dio vorrebbe dire dargli tutto e far diventare Lui il nostro tutto, e tutto il resto viverlo come relativo, trovare il vero e il buono, il giusto e il bello solo rapportandoci a Lui, in una logica destabilizzante rispetto agli equilibri soltanto umani. È la logica di Gesù fatto uomo per condividere fino in fondo la nostra sorte, fino al dono totale di sé sulla croce in obbedienza totale al Padre, in abbandono alla sua volontà. E in questa logica non si entra per scienza o decisione umana, ma per docilità all’azione dello Spirito, lo Spirito nel quale il Padre ha risuscitato il Figlio dalla morte e che è a noi donato perché possiamo dire il nostro sì a Dio-Amore.
Nella liturgia della 3.a domenica di Quaresima (anno C), il collegamento tra il racconto della chiamata di Mosè e il Vangelo (Luca 13,1-9) non è a prima vista scontato, non è per niente agevole. Perché Gesù ci mette davanti a un fatto di sangue e a una disgrazia (in tutti e due casi sono morti degli innocenti) per dirci che periremo tutti allo stesso modo; e poi c’è la parabola di un fico che non dà frutti e verso cui il padrone a stento reprime il desiderio di tagliarlo. Tre paragoni che convergono nell’affermazione della precarietà dell’esistenza e nella tragica possibilità della perdizione eterna. Unica condizione per evitarla è CONVERTIRSI. Cioè cambiare vita, modificare l’asse dei propri criteri di valore e di giudizio, prendere in mano la propria esistenza per orientarla nella direzione giusta, sapendo che si tratta di qualcosa di urgente e insieme di difficile.
Forse, il collegamento tra l’Esodo e il Vangelo sta nella presa di coscienza della vita come bene insieme prezioso e fragile, ciascuno di noi chiamato a guardare dentro la propria storia e a chiedersi dove sta andando, pensare a un esito drammatico e forse imminente (il testo del Vangelo) o a una situazione comune complessiva – la schiavitù in Egitto – in cui gli aspetti negativi devono essere contrastati, c’è bisogno di liberazione. E non sarà un’impresa indolore.
Il contesto Quaresimale e perciò lo sguardo rivolto alla Pasqua – attesa della liberazione d’Israele e della risurrezione di Gesù – ci aiuta a non cedere alla tentazione di scoraggiarci, dando dei due brani una lettura pessimistica. Quello che la vicenda di Mosè e la storia di Gesù ci dicono in maniera incontrovertibile è che nonostante tutto “c’è un Dio dalla nostra parte”. E niente e nessuno potrà mai separarci dal suo amore.


Buona Quaresima, buona domenica!